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Sta facendo molto discutere la scelta dell’editore britannico del grande scrittore per ragazzi Roald Dahl di riscrivere i suoi libri depurandoli di parole o passaggi che potrebbero risultare offensivi. Un esempio per tutti: Augustus Gloop, bambino goloso e arrogante de La fabbrica di cioccolato non sarà più “enormemente grasso”, ma soltanto “enorme”. Niente body shaming, quindi, con il beneplacito degli eredi dell’autore, che poco hanno potuto di fronte all’esigenza di soddisfare le richieste di un mercato importante come quello statunitense, dove la cancel culture è una questione di dibattito quotidiano, pervasivo e ossessivo.
Ma cos’è la cancel culture? Molti la associano al politicamente corretto, e di certo i due fenomeni spesso si alimentano, anche se non sono esattamente la stessa cosa. La cancel culture è, nella sua accezione più generale, quell’insieme di pratiche culturali che chiede di cancellare dagli spazi pubblici simboli di politiche di sopraffazione. Ad esempio la rimozione delle statue di generali confederali negli stati che furono schiavisti nella guerra di secessione. Il problema è che non solo una collettività è sempre d’accordo su quello che è giusto cancellare, ma che ormai tutto sembra essere considerato uno spazio pubblico. Anche un libro o un film. Quindi, negli Usa, si chiede di non trasmettere più il film “Via col vento” in quanto (innegabilmente) zeppo di stereotipi razzisti o di censurare Mark Twain (uno scrittore di fine ‘800 innegabilmente non razzista) perché i suoi libri contengono la parola nigger o di proibire l’insegnamento di Faulkner perché era un razzista.
Qui la cancel culture si mescola col politicamente corretto, in quanto pretende di applicare al passato gli standard sempre più vincolanti di linguaggio che si ritengono giusti oggi. Questa deriva è analizzata dal completo ed efficace saggio di Costanza Rizzacasa d’Orsogna “Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana” (Laterza, 2022). Anche intervistando studiosi e artisti presi di mira dall’abuso delle pratiche di cancellazione/correzione, tra cui molti appartenenti alle minoranze che si vorrebbe “proteggere”, l’autrice sostiene una tesi che mi sento di condividere.
La depurazione dei testi del passato fatta per “proteggere” è in realtà un’elusione della conoscenza e una fuga dal conflitto che un testo può sempre generare. Anziché correggere Twain o censurare Faulkner sarebbe molto meglio spiegare perché la società di quegli autori produceva e ammetteva un certo tipo di linguaggio e un certo tipo di testi. Peraltro, la cancellazione protegge molto di più i correttori che le presunte vittime, permettendo ad esempio ai bianchi liberal di oggi di nascondere i bianchi razzisti di un tempo, con una rimozione autoassolutoria. O addirittura controproducente, perché anche i razzisti veri hanno la loro cancel culture, come quando pretendono di censurare o correggere i testi con riferimenti LGBTQ. E anche l’approccio a una statua può essere il frutto di una pratica di ridiscussione della memoria e dell’identità che alla semplice rimozione (in alcuni casi legittima e indispensabile) preferisca la trasformazione dello spazio, come spiega Lisa Parola nel suo saggio brevissimo, semplice e allo stesso tempo vario “Giù i monumenti? Una questione aperta” (Einaudi, 2022) dove vediamo statue che scendono dal piedistallo, che finiscono in parchi giochi della memoria o vengono rielaborati da artisti e cittadini.
Inoltre la scelta di leggere un libro o vedere un film dovrebbe essere un atto che deriva da una selezione e dall’acquisizione delle competenze necessarie per affrontarlo. Anche in questo caso la correzione sembra eludere la volontà di educare a un pensiero critico. Ci sono già abbastanza genitori elicottero senza che ci si metta anche una scuola elicottero (magari guidato da uno stato etico). Questa anestetizzazione può peraltro ritorcersi in ogni momento contro ogni buona intenzione, come accade alla protagonista dell’appassionante e illuminante romanzo “Middle England” di Jonathan Coe (Feltrinelli, 2019), che ci spiega come anche la Brexit sia il frutto di un arroccamento delle persone “colte” in un linguaggio che esclude e nasconde un certo disprezzo di classe.
Non dobbiamo infine dimenticare che non sempre l’arte deve essere gradevole e depurata da ogni spigolo. Non si tratta della ricerca della provocazione per la provocazione o di aggressività per l’aggressività ma, di nuovo, di pensiero critico. Anche perché il politicamente corretto è spesso molto aggressivo, come dimostra un grande irriverente come Bret Easton Ellis nel suo “Bianco” (Einaudi, 2019). In questo pamphlet l’autore di “American Psycho” fa quello che ha sempre fatto: disturba le nostre certezze, corrode la nostra ipocrisia. Odiamolo pure, ma non cambiamone una virgola.