Olimpiadi e crisi, non solo Tokyo: il caso di “Sabotaggio Olimpico” di Manuel Vazquez Montalban

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Le Olimpiadi di Tokyo sono in realtà iniziate stanotte con le prime partite del torneo di softball, ma si stanno confermando molto tormentate. In Giappone in molti ne chiedono la soppressione e sponsor che hanno già sborsato milioni, come la Toyota, scelgono di apparire il meno possibile. Il Villaggio Olimpico e i vari impianti sono gestiti come “bolle”, ma i contagiati ci sono e ci saranno. Gli spalti saranno praticamente vuoti e il pubblico saranno i miliardi di occhi televisivi. Ma è davvero una novità?

Sono davvero poche le edizioni in cui lo spirito olimpico ha prevalso su tutto. Quelle degli anni ’20 (Anversa, Parigi, Amsterdam); quelle del secondo dopoguerra (Londra, Helsinky, Roma e Tokyo, ma non Melbourne ’56, segnate dalla Guerra Fredda), alcune degli anni ’90 e 2000 (Sidney, Pechino e Londra).

La storia dei Giochi Olimpici moderno è costellata dalle crisi, perché a differenza di quelle antiche che interrompevano tutto, guerre comprese, rischiano sempre di essere interrotte da ciò che accade nel mondo, e se non sono interrotte sono invase (gli attentati di Monaco ’72 e Atlanta ’96), insidiate (praticamente tutte le edizioni dal 1900 al 1912), manipolate (Berlino ’36). O boicottate. Dalla politica (Montreal ’76 e, soprattutto, Mosca ’80 e Los Angeles ’84) o dall’opinione pubblica (Messico ’68 e Rio 2016).

O dagli abitanti delle città trasformate dalla furia urbanistica dei Comitati Organizzatori. È il caso dell’esemplare tentativo di resistenza passiva di Pepe Carvalho, il detective gourmet di Manuel Vazquez Montalban, in “Sabotaggio Olimpico” (Feltrinelli).

Le Olimpiadi sono quelle di Barcellona 1992. Olimpiadi da “ruggenti anni ’90”: volute fortemente dall’allora Presidente del CIO Juan Antonio Samaranch per la “sua” Catalogna (casualmente collocata in Spagna), segnarono la svolta globalizzatrice dell’evento. Caddero i confini tra professionisti e dilettanti in quasi tutte le discipline, come simboleggiato dal Dream Team di basket americano e i record da battere non erano più quelli sulle piste o in piscina ma quelli dell’evento in sé: il numero di paesi e atleti partecipanti, la magnificenza degli impianti, lo strapotere delle corporation, il glamour dell’universalismo.

La novella di Montalban mette a nudo tutte le contraddizioni di questa facciata, svelando che, come avrà modo di dire il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz molto dopo, gli anni ’90 non erano poi tanto buoni.

Lo fa attraverso la storia più folle e più divertente di Pepe Carvalho, ingaggiato proprio dal CIO per sventare un presunto complotto contro le Olimpiadi. Il detective era in realtà in isolamento nella sua Vallvidrera per sfuggire a quello che considera uno scempio della vecchia Barcellona (oggi la chiameremmo gentrificazione), ma è costretto ad un’indagine che lo vedrà affiancato da una culturista serba ed entrare in contatto con i reali si Spagna e di Inghilterra, Arnold Schwarzenegger, gruppi antagonisti veri e falsi, servizi segreti veri e falsi, George Bush (senior) e ovviamente Juan Antonio Samaranch.

Proprio Samaranch, militante franchista, è per Montalban il grande burattinaio di una manifestazione infestata dal nazionalismo che sta aggredendo l’Europa: a Barcellona ’92 dodici stati dell’ex URSS gareggiano sotto l’insegna della “Squadra Unificata” o “Csi” (vincendo il medagliere) e gli atleti di Serbia e Montenegro vengono ammessi come “Partecipanti Olimpici Indipendenti” per le conseguenze della guerra civile jugoslava. Giochi magnifici per chi guarda da fuori, ma con un sottosuolo oscuro di ultraliberismo e cinismo: “Nel momento stesso in cui due bambini orfani jugoslavi venivano uccisi dai cecchini, una madre spagnola mollava una sberla al selezionatore della squadra di sua figlia perché non l’aveva tenuta in conto, e un terzetto di arcieri spagnoli mandava il pubblico in estasi vincendo la medaglia d’oro. I soli africani ben nutriti sono i ras e gli atleti. E’ la lotta finale, Carvalho“.

Quando Pepe incontra Samaranch e gli alti papaveri del CIO in un bunker sotterraneo, li trova intenti a preparare la prima edizione olimpica non sponsorizzata ma organizzata dalle multinazionali. È un tripudio di humor nero: “Samaranch considerò l’opportunità di presentarsi ad Atlanta vestito da attivista del ku Klux Klan, dato che un’importante parte della popolazione del Sud degli Stati Uniti continuava ad essere razzista. In pratica quelli del CIO uscivano dal bunker e dai corsi accelerati di negritudine sovvenzionati da McDonald’s solo per consegnare le medaglie ai vincitori e sempre piuttosto di malavoglia. Le uniche medaglie redditizie, politicamente parlando, erano quelle vinte dagli spagnoli […]. Tutte le altre, o confermavano l’emancipazione atletica di popoli che poi non avevano manco l’acqua per farsi la doccia o se ne tornavano in un paese tanto indimostrabile come la Csi”.    

Montalban amava lo sport, ma sapeva riconoscere e raccontare le aberrazioni di qualunque potere, compreso quello che organizza lo sport: “Sabotaggio Olimpico” è una straordinaria indagine satirica sul potere.

Oggi a Tokyo siamo di fronte a diverse ma altrettanto grandi contraddizioni e l’unica cosa autentica, probabilmente, sono gli atleti e le atlete, con i loro sogni a cinque cerchi.

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