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Una vera storia dei feroci anni ’80 nella Scozia delle miniere
A soli due mesi dal suo successo al Booker Prize (il più importante premio letterario britannico), Mondadori porta in Italia l’esordio di Douglas Stuart, ambientato nella Glasgow degli anni ottanta. Un romanzo che molti appassionati di letteratura inglese, e non solo, aspettavano, per il grande impatto avuto sulla critica, per i temi affrontati – il disagio sociale, l’alcoolismo, l’omosessualità – e forse anche per l’attenzione che suscita in noi europei il Paese della Brexit. Un’opera dal realismo potente che offre il punto di vista dalla tenebra scozzese sull’epoca narrata da Jonathan Coe ne “La famiglia Winshaw”.
La trama, in breve: Agnes, separata con due figli, Catherine e Leek, si innamora e si sposa con il taxista Shug Bain, con cui ha il piccolo Shuggie. Agnes è tormentata dalla gelosia, Shug gliene dà tutte le ragioni. Vivono tutti nella casa dei genitori di lei, e quando Shug decide di trasferirsi nel vecchio quartiere minerario Pithead lo fa per lasciarli. È in questo ambiente ostile che Agnes precipita nell’alcolismo, trascinando a fondo con sé i suoi figli, che finiscono per abbandonarla tutti tranne Shuggie. Unito alla madre da una comunione della diversità, emarginato per la sua evidente omosessualità, le starà sempre vicino, nella speranza di un cambiamento, di una svolta; nella speranza che l’amore possa finalmente consolarla e liberarla. In una città divisa tra protestanti e cattolici e in cui la fine del carbone e di tante altre cose voluta dalla Thatcher sta distruggendo il paesaggio urbano e sociale, un ragazzo prova a mantenere salda la sua umanità.
Perché leggere questo libro, che poteva essere ‘Billy Elliot’ ma, per fortuna, non lo è.
1Perché Douglass Stuart ci dice, senza alcun fronzolo, senza urlarlo, ma con spietata sincerità, che gli anni Ottanta sono stati un decennio feroce, che ha distrutto il mondo del lavoro e la solidarietà sociale costruita dopo la guerra. La Glasgow di Shuggie Bain è un paesaggio in rovina, e i suoi abitanti si spengono insieme alla chiusura delle sue miniere, che lasciano solo la polvere di carbone appiccicata ai vestiti, ai polmoni che soffocano, alle anime. Una città dove si fa la coda per i sussidi e poi li si spende per il bingo, la birra, la vodka. Nessuno diventerà un ballerino famoso, come Billy Elliot, perché rispettando l’insegnamento brechtiano, Stuart ci dice che essere poveri rende violenti e svuotati, e salvarsi è possibile solo riconoscendo che nessuno può farcela da solo.
2Perché pur essendo un libro su cui si poggia una cappa grigio piombo non è mai patetico, e i sentimenti umani sono rappresentati nella loro essenzialità. Agnes Campbell Bain, la vera protagonista del romanzo, si staglia come una grande figura del romanzo di tutti i tempi: mentre si consuma nell’alcolismo si oppone alla sua stessa decadenza indossando sempre la sua bellezza, le scarpe coi tacchi, il cappotto elegante. Ci sono poi due scene che da sole valgono il libro: la confessione della madre di Agnes su come andò veramente il ritorno dalla guerra del padre, e la notte di passione di Agnes e Shug, che ci porta dove ‘Chesyl Beach’ di Ian Mc Ewan non aveva osato addentrarsi.
3Perché l’autore, attingendo alla sua esperienza personale, rappresenta con un’umanità che afferra il cuore il rapporto tra un figlio “diverso” e una madre afflitta da una dipendenza che, insieme, fanno fronte a una società intrisa di pregiudizi e ipocrisie. Un amore spesso tradito, soprattutto da Agnes: ma quello tra una madre e un figlio è un amore che non contempla il tradimento, solo l’adesione condizionata o la defezione. E questo libro è un grande atto d’amore, incondizionato, della memoria di Douglass Stuart per sua madre. E per Glasgow, perché anche una città è una madre.