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Yoshida Atsushiro è uno scrittore nato nel 1962, molto prolifico e già tradotto in francese e in tedesco, ma solo in questo 2024 arriva in Italia grazie a e/o, con “Buonanotte Tokyo” (nell’ottima traduzione di Costantino Pes). Un breve romanzo in cui il feel good, lo stare bene giapponese di cui abbiamo già parlato, emerge da uno sguardo molto attento sui personaggi e il loro districarsi nelle imprevedibili dinamiche del caso in una città che non dorme mai.
La trama in breve
Il libro è diviso in diversi brevi capitoli che iniziano tutti quando a Tokyo scocca l’una del mattino e la città è vissuta e attraversata da figure che non conoscono il giorno. Un tassista, la responsabile di un magazzino per le forniture di scena dei film, una operatrice del telefono amico, un’addetta allo smaltimento dei vecchi telefoni analogici, quattro ristoratrici, un investigatore che forse è un attore. Tutti cercano qualcuno o qualcosa – una persona che avrebbe potuto essere un grande amore, un fratello scomparso, un oggetto, le case in cui hanno vissuto, i film interpretati da un padre – e le loro vite si incrociano nella notte, in una trama di incontri mancati e coincidenze sorprendenti, di rimpianti e nuovi inizi. Vite che provano ognuna a comporre un loro puzzle, cercando i tasselli che mancano, sino a quando non sorge il sole.
Il romanzo di Yoshida Atsushiro è coinvolgente e ti fa proprio venire voglia di leggerlo velocemente, per vedere come vanno a finire le cose, ma, se questo non bastasse, ci sono altri tre ottimi motivi per leggerlo.
1. Tōkyō, città dei puzzle
Leggendo “Buonanotte a Tōkyō” mi sono venuti in mente un bellissimo (ma un po’ dimenticato) film di Martin Scorsese, “Fuori orario”, e il numero di Dylan Dog ispirato dal film, “Dopo mezzanotte” (scritto da Tizianio Sclavi per i disegni di Gianpiero Casertano). Opere in cui il caso era il vero protagonista, insieme alla notte e alle città (New York e Londra). Solo, nelle notti di Tokyo raccontate da Yoshida Atsushiro, il lato onirico prevale sull’azione. Tutto avviene lentamente e ciò che hanno in mano i personaggi sono pezzi di un puzzle che non si riesce a finire, anche quando magari riesci ad aggiungere un tassello. Perché nessuna persona ha una storia sola e a volte i pezzi bisogna lasciarli lì, a riposare, in attesa che il caso ti faccia incontrare chi ha un pezzo che combacia con il tuo.
2. Gli incroci del caso
Tōkyō è una città enorme, dove è facile perdersi e difficile ritrovarsi. Una città senza indirizzi, dove è fondamentale, per trovare qualcosa o qualcuno, affidarsi a delle guide, che magari conoscono un solo pezzo di città, ma nei minimi dettagli. Ma Tokyo è una città di incroci, e negli incroci ci si può ritrovare. A condizione di avere qualcuno al proprio fianco, di sapersi mettere in ascolto delle persone che il destino mette sul nostro cammino. Yoshida Atsushiro ci racconta storie di persone prigioniere del passato, che si liberano grazie alla capacità di mettersi in connessione con gli altri nel modo più umano che esista: parlandosi. In questa storia ci sono molti telefoni fissi, compresi quelli di cui le persone si disfano controvoglia, perché la loro vita è legata a una voce che magari non c’è più, ma non ci sono praticamente smartphone. Ci sono ristoranti e bar notturni dove il conforto è in qualcuno che ti ascolta e magari ti darà un indizio per trovare chi stai cercando o per trovare quello che non sapevi di cercare.
3. I finali giapponesi… senza finale
“Buonanotte Tokyo” è un libro che ti fa innamorare dei suoi protagonisti e tifare per loro, ma esprime molto bene una componente fondamentale del pensiero giapponese, che a volte facciamo fatica a metabolizzare. Noi siamo abituati ad aspettarci che una storia finisca bene o male e quelli che chiamiamo finali aperti ci lasciano spesso un po’ interdetti.
I finali delle storie giapponesi non sono aperti, sono non finali, perché la fine di una storia coincide sempre con l’inizio di un’altra. Che magari non ci riguarda: quello che ci dice questo libro è che non sempre chi cerchiamo vuole essere trovato: a volte sì, a volte no, a volte può darsi. Ma è la ricerca quella che conta, e nella notte c’è sempre qualcosa che i ritmi ordinari e frenetici del giorno ci impediscono di vedere. Se non ci credete, andate a Tōkyō e chiamate il taxi, all’una di notte. Magari vi risponderà Matsui. Oppure no.