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In un futuro molto prossimo il legame “malato” tra osservanti e osservati mostra gli eccessi della tecnologia
Gironzolando per i siti delle case editrici in cerca di ispirazione, tempo fa, mi imbattei in “Kentuki” di Samanta Schweblin (Sur, 2019) e rimasi subito colpita dalla trama: ambientato in un futuro molto prossimo (o addirittura in un presente alternativo), parla di un tema che mi affascina molto, ovvero gli eccessi della tecnologia. Per me, che la tecnologia la amo – a volte non ricambiata, come quando la stampante si ribella – e per via del mio lavoro ne osservo spesso i lati oscuri o distorti, è stato un vero colpo di fulmine.
La trama, in breve: i Kentuki sono l’ultima tendenza, tutti ne vogliono uno. Sono teneri peluche trattati alla stregua di animali domestici, con le ruote e una telecamera al posto degli occhi (e pochi altri mezzi per interagire). Dall’altra parte di ogni Kentuki, però, c’è un essere umano diverso, connesso chissà da dove con il suo tablet, a regolare i movimenti del peluche. Dunque c’è chi sceglie di essere osservato, e c’è chi sceglie di osservare. Non si può sapere chi c’è dall’altra parte, osservati e osservatori non si possono scegliere, né cambiare. Se uno dei due si disconnette, il legame è perso per sempre e il peluche è da buttare.
Perché leggere questo libro, che secondo me può piacere molto agli amanti di “Black Mirror” su Netflix:
1 Fa riflettere sul voyeurismo e sull’esibizionismo dilagante, i pericoli di osservare e farsi osservare che nasceranno man mano che si legge. Ma d’altronde non ci siamo già dentro oggi fino al collo? Condividiamo tutto, spesso inconsapevoli degli effetti (nefasti) che può avere sbattere il nostro privato sul web, e il Kentuki in fondo non è che l’ultima estrema trovata. Può succedere veramente? Sì, anche domani. Ed è inquietante.
2 Mette bene in luce, tramite l’escamotage del Kentuki, alcune caratteristiche di quella che in fondo è società di oggi: la deresponsabilizzazione (questi peluche sono meglio di un animale domestico, non bisogna neppure portarli fuori); la solitudine, perché c’è chi si sente più accudito dal suo “osservato” che dai parenti; l’immedesimazione in un qualcosa di inanimato che sostituisce il reale (vi ricordate quando da piccoli c’era sempre il bimbo che piangeva perché il suo Tamagotchi moriva? Bene, qui c’è chi, se potesse, lascerebbe volentieri le sue spoglie mortali per trasferirsi all’interno di un Kentuki, per sempre).
3C’è quasi sempre – per mille motivi diversi – il momento in cui si prova a uscire dal “gioco” e si cerca di stabilire un contatto con il proprio osservatore/osservato, rompendo gli schemi e le regole del Kentuki, e immergendosi nella realtà dei fatti. Come va a finire? Lascio a voi questa domanda, per provare a riflettere, oppure per dare una risposta leggendo il libro.