“Underground” di Haruki Murakami: dall’attentato di Tokyo un imperdibile spaccato della società giapponese

SUL LIBRO

Con una serie di interviste senza peli sulla lingua a superstiti ma anche agli stessi affiliati alla setta Aum che orchestrarono l'attentato di Tokyo del 1995, Murakami traccia un sorprendente ritratto della società giapponese. Tiene incollati alle pagine: da non perdere

Tempo di lettura: 3 minuti

Lo so, lo so: molti di voi in questo periodo staranno aspettando la recensione di “La città e le sue mura incerte”, l’ultimo libro di Haruki Murakami uscito da poco in Italia. E invece, siccome ce lo stiamo lentamente gustando perché i libri di questo straordinario autore giapponese vanno assaporati con calma, vi propongo una lettura che mi ha tenuta compagnia nei mesi scorsi. Forse poco conosciuta ma davvero imperdibile.

Sto parlando di “Underground” (Einaudi, 2014, traduzione di Antonietta Pastore) che si discosta dai romanzi tradizionali di Murakami. Anche perché non è un romanzo. È una raccolta di interviste – forse anche per questo mi sono esaltata, chiamiamola deformazione professionale – rilasciate da cittadini giapponesi a fine anni ’90 in una circostanza molto speciale, un evento assolutamente traumatico per il Sol Levante. Qui sotto un po’ di informazioni per saperne di più.

La trama di “Underground” di Haruki Murakami e cosa c’è da sapere sull’attentato della metro di Tokyo

Come dicevo prima è una raccolta di decine di interviste effettuate da Murakami dopo l’attentato della metro di Tokyo del 1995, un fatto che ha letteralmente traumatizzato il Giappone con la sua fama di Paese in cui la sensazione di sicurezza è assolutamente qualcosa di unico (lo abbiamo provato sulla nostra pelle anche Simone ed io come raccontiamo in “Giappone in tutti i sensi“). Ma cos’è successo? Il 20 marzo 1995 alcuni adepti della setta religiosa Aum, nei treni della metro, forarono alcune sacche che contenevano un potentissimo gas velenoso, il sarin, causando dodici morti e migliaia di intossicati.

Alt, so a cosa state pensando: “Beh, solo dodici morti…”. So che rispetto agli attentati che hanno sconvolto il lato occidentale del mondo è un numero relativamente basso, ma bisogna tener conto di alcuni fattori. Innanzitutto che il numero degli intossicati (anche gravissimi, con danni permanenti) è stato davvero altissimo, tanto che fuori dalle stazioni della metro interessate i testimoni hanno descritto vere e proprie scene apocalittiche. E poi come dicevo prima in un Paese considerato sicurissimo come il Giappone l’evento è stato un vero e proprio trauma collettivo e ha messo a nudo la sostanziale impreparazione di polizia e sanità ad affrontare una situazione che si riteneva irrealizzabile. Cos’è andato storto nella società giapponese? Perché i membri della setta hanno compiuto un gesto così assurdo? Perché hanno potuto farlo, sostanzialmente, indisturbati?

Murakami ha compiuto una serie di interviste bellissime non solo ai superstiti, ma è anche riuscito nell’impresa di contattare diversi membri di Aum per ascoltare la loro opinione.

Dopo questo “cappello” iniziale, ecco i miei tre buoni motivi per leggere questo libro che davvero ho amato alla follia e da cui non sono riuscita a staccarmi fino alla fine.

1. Non è solo il racconto di una tragedia: è uno straordinario spaccato della società giapponese

All’inizio ero un po’ perplessa: la prima intervista restituiva un quadro talmente nitido che ti sembrava di essere lì a vivere quell’orrore. E ho pensato: “Non so se ce la faccio a leggere tutte le altre”. Poi in realtà andando avanti ha preso il sopravvento un’altra considerazione: questo libro è uno straordinario spaccato della società giapponese. Perché ogni persona intervistata racconta cosa stava andando a fare in quel momento, perché, come viveva all’epoca, qual era la sua situazione familiare.

E soprattutto come ha reagito alla tragedia: la cosa che mi ha colpita di più è che moltissime persone non si sono rese conto di quello che stava succedendo nonostante segnali abbastanza evidenti. Questo può dipendere da più elementi: il fatto che la società giapponese si consideri talmente tanto sicura da escludere a prescindere un attentato, oppure anche che essendo una comunità così “autocontrollata” e conformista non ci siano state manifestazioni di panico individuali che abbiano innescato reazioni a catena.

2. Giappone Paese sicuro?

Come ho già scritto, siamo abituati a pensare al Giappone come a un Paese sicurissimo e per certi versi è sicuramente così. È un paese con un tasso di criminalità bassissimo, sei abbastanza sicuro che se dimentichi il portafogli nella metro di Tokyo lo ritroverai, e le persone spesso escono di casa senza chiudere a chiave la porta. Ma forse come conseguenza, e il libro in questo senso ne è una denuncia, è un Paese che si è dimostrato impreparato a gestire scenari di forte criticità dovuti ad atti terroristici o comunque a gravi crimini. Mentre invece riesce a essere molto efficiente nei casi dei disastri naturali a cui purtroppo il Giappone è abituato. Ma sono cose diverse.

Le forze dell’ordine sono state colte di sorpresa ma anche il sistema sanitario ha dato una risposta lenta, insufficiente e sopratutto scomposta: non c’erano abbastanza ambulanze, non venivano fornite indicazioni esaustive, gli ospedali non erano in contatto tra di loro per una gestione comune dell’emergenza. E c’è chi ha capito molto tardi che le intossicazioni erano dovute al sarin, sebbene ci fossero già stati attentati in cui era stato usato neanche troppo tempo prima: molte persone vennero rimandate a casa in fretta e furia con rimedi totalmente insufficienti e peggiorarono. Certo questo è successo negli anni ’90 e l’esperienza insegna: si spera che nel frattempo la gestione di questi eventi sia migliorata.

3. “Nella setta era più semplice, non c’era bisogno di pensare a nulla”

Come dicevo prima, Murakami è anche riuscito a contattare alcuni affiliati alla setta Aum e a riportarne le interviste alla fine del libro. Emerge un quadro molto inquietante perché queste persone, pur essendo quasi tutte pentite, raccontano delle vere e proprie vessazioni subite all’interno di questa organizzazione religiosa. Ma chi gliel’ha fatto fare? In parte le motivazioni sono molto simili a chi si affida alle sette anche in occidente: suggestione, la convinzione di aver trovato il proprio posto nel mondo al di fuori di una società che tende a escludere, un disagio che in Giappone si moltiplica visto l’imperante conformismo e la fortissima pressione sociale a cui sono sottoposte le persone. Ma la cosa che mi ha davvero sconcertata è l’ammissione molto candida di chi ha rivelato a Murakami (cito testualmente): “Mi ero liberato delle seccature della società e vivevo tranquillo, in pace, la cosa essenziale era questa […]. Non c’era bisogno di pensare a nulla. Bastava fare come ti dicevano, senza porti domande”.

Per analizzare quel che è successo però, dice bene Murakami, non si può considerare il fenomeno del culto Aum qualcosa di totalmente estraneo alla società giapponese, una presenza aliena e incomprensibile. Non si può chiudere questo fatto nel “baule” del passato e gettare le chiavi: le radici del male, come sempre, risiedono anche dentro di noi e il muro tra la vita quotidiana e la dimensione della setta a volte è più sottile di quanto immaginiamo.

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