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In un periodo in cui sono frequenti i libri che “riscrivono” i grandi classici (“Demon Copperhead” di Barbara Kingsolver, Premio Pulitzer 2023, chiaramente ispirato a Dickens, o “James” di Percival Everett, finalista al Booker Prize di quest’anno che riprende “Le avventure di Huckleberry Finn”), la giustamente celebrata autrice britannica di origini giamaicane Zadie Smith ha scritto un romanzo storico con lo stile di un grande classico e con “L’impostore” (Mondadori, 2023, nella traduzione di Dario Diofebi) si conferma una delle scrittrici più importanti del nostro tempo.
La trama, in breve:
William Ainsworth è stato un romanziere molto famoso nell’Inghilterra di metà ‘800. Per un periodo i suoi libri vendevano più di quelli del suo amico Dickens. Quando inizia il suo declino verso l’anonimato, al suo fianco resta la cugina Eliza Touchet, che è la sua governante da quando Ainsworth è rimasto vedovo. Ora si è risposato con la sua domestica, Sarah. Le due donne sono troppo diverse per andare d’accordo, ma si fanno entrambe coinvolgere dal “Caso Tichborne”, che vede protagonista un uomo che afferma di essere il pretendente di una famiglia nobile dato per morto in un naufragio. Londra e l’Inghilterra si appassionano a questa vicenda che finisce in tribunale e il pretendente è accusato di impostura. A difendere le sue ragioni vi è soprattutto l’ex schiavo giamaicano Andrew Bogle, che attira l’attenzione della signora Touchet. Eliza, fervente abolizionista, pensa che sia giusto scrivere la storia di Bogle, emancipandola da quella dei bianchi in cui è coinvolto. Questo la porta a mettere a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della società vittoriana, che sono anche le sue, e a comprendere che il confine tra verità e finzione è spesso molto sottile.
Zadie Smith trae spunto da fatti e personaggi reali raccontandoli dal punto di vista di chi stava ai margini, Eliza e Bogle, e sollevando la polvere nascosta sotto il tappeto della storia. Con i suoi capitoli brevissimi, come in un romanzo d’appendice, “L’impostore” sarà una piacevole e arricchente lettura per almeno tre buoni motivi.
1. Dio salvi Eliza Touchet
Di Eliza Touchet sappiamo solo che è esistita, ma Zadie Smith la trasforma in un personaggio memorabile. Eliza è brillante, dissacrante e sottopone al suo caustico sguardo prima di tutto il patriarcale salotto di scrittori che frequenta, compreso un Dickens, ci cui scopriremo alcuni aspetti poco edificanti. Eliza sa amare, in modo intenso e pieno, sia Ainsworth che la sua prima moglie. Eliza è una donna che attraversa il dolore della morte di un figlio e di un marito che l’aveva abbandonata. Eliza sa scrivere e vuole raccontare la storia dell’ex schiavo Andrew Bogle e raccogliendo quella voce scopre le sue contraddizioni di donna bianca. Ma non scappa e affronta sino in fondo le sfide dell’identità facendo i conti con il potere della scrittura e delle storie. Eliza è uno di quei personaggi che un lettore vorrebbe sempre incontrare in un romanzo.
2. La noia e la banalità non abitano qui
“L’impostore” affronta questioni di grande rilevanza: il colonialismo schiavista della Gran Bretagna e la sua frettolosa rimozione, la battaglia per l’emancipazione delle donne nella società vittoriana, l’identità di genere, il ruolo ambiguo della scrittura moralista e progressista dell’800, la questione cattolica in Inghilterra, l’ascesa del socialismo. Ma lo fa attraverso una scrittura scorrevole, un ritmo incalzante, una sfilata di situazioni e personaggi divertenti (mi è capitato più volte di ridere, mentre leggevo), una trama che non cede mai di tono e una padronanza narrativa rara, che le permette di coniugare il piacere della lettura alle riflessioni che vuole suscitare: il puro piacere di una storia importante.
3. Un romanzo storico che provoca il presente
L’epoca vittoriana è un ricco serbatoio di miti contemporanei: amiamo parlarne e vederla rappresentata, ma in realtà non ne sappiamo nulla. Soprattutto ne vengono omessi gli aspetti più violenti e controversi: l’Impero Britannico, che in quel periodo era al suo apice, era razzista e classista e le istanze progressiste – incarnate nel romanzo da Dickens – faticavano non poco ad affermarsi. Anche buona parte delle élite più ben disposte erano contraddistinte da un paternalismo che mirava di più a lavare le coscienze dei singoli piuttosto che a cambiare la natura delle cose e a riconoscere una vera parità alle vittime del colonialismo e della disuguaglianza. Zadie Smith invece usa il “Caso Tichbourne”, quello di un macellaio che vuol farsi passare per nobile, per smascherare le imposture ben peggiori di un’epoca, restituendo al romanzo storico quella capacità di critica del presente che era una delle sue ragioni d’essere: a volte, gli impostori, siamo noi.