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A dieci anni esatti dalla sua prima edizione, Einaudi propone al pubblico italiano il romanzo breve, anzi brevissimo, “Chiamo i miei fratelli” dello svedese Jonas Hassen Khemiri. Un autore affermato a livello internazionale, che in questo lavoro affronta la questione cruciale del multiculturalismo in un Paese considerato da molti un modello di integrazione.
Un modello sempre più in discussione e incrinato, che l’autore fa – letteralmente – detonare, facendo emergere i conflitti che le società nascondono per vergogna, indifferenza o malafede. Un libro che mostra il lato oscuro non solo della Svezia, ma dell’Europa tutta.
La trama, in breve
Un’auto è esplosa al centro di Stoccolma e la polizia presidia una città coi nervi a fior di pelle. Potrebbe essere stato chiunque, ma è molto facile che i sospetti ricadano su quelli come Amor e i suoi fratelli: gli svedesi meno svedesi degli altri. Per 24 ore seguiamo Amor vagare per la città alla ricerca di un pezzo di ricambio per un elettrodomestico e intanto telefonare e ricevere telefonate: dal suo migliore amico, di una parente che sta in Francia, a un’amica di cui è innamorato, dell’operatrice di un call center, a sua nonna. Una rete di legami tra persone che si stringono per confermare la propria innocenza, per pronunciarla ad alta voce e per rispondere allo sguardo ostile dei loro concittadini più svedesi degli altri. Alla fine del suo giorno e della sua notte più lunghi cosa troverà Amor? Quale verità, e su chi?
Tre buoni motivi per leggerlo
La verità è che Amor ha ottime ragione per chiamare i suoi fratelli, come noi abbiamo almeno tre buone ragioni per leggere questo libro.
1La quarta copertina dice “Chiamo i miei fratelli” è “scritto con lo stile perforante di una canzone trap”. Non è vero, ma è vero che lo stile è molto importante in questo libro, perchè è tutto ritmo. E Khemiri stile ne ha da vendere. Praticamente la storia è composta esclusivamente di dialoghi: del protagonista coi suoi interlocutori e con se stesso. Quasi una sceneggiatura teatrale. Questo rende la storia molto plastica, corporea: ce la mette davanti agli occhi, ipnotizzandoci. E se il trap è lento, cadenzato, qui siamo in realtà di fronte al rap, a qualcosa di veloce e che ti investe, proprio come la realtà che investe Amor. Ricorda allo stesso tempo i film “L’odio” e “Tutto in una notte”: tempo compresso in una città psichedelica e ostile.
2Questa è una storia morale, che vuole comunicare un messaggio. Ma lo fa attraverso i caratteri, i personaggi e le azioni e le voci dei protagonisti. Niente è didascalico, tutto è esperienza vissuta. E tutti comunicano l’essere fuori posto di immigrati di seconda o terza generazione che sono ormai cittadini ma non vengono trattati come tali. Possono integrarsi, mimetizzarsi o reagire (come fa la cugina di Amor in una delle scene più efficaci del romanzo), ma non potranno mai essere invisibili. Khemiri vuole dirci che la polizia non è razzista solo negli Usa, ma soprattutto che ogni città ed ogni cittadinanza sono una riconquista quotidiana e sempre instabile. Quindi piena di storie da raccontare.
3Nulla è scontato, in questo racconto lungo. La prospettiva cambia velocemente e le certezze di una pagina si infrangono poco più avanti. Nella telefonata tra Amor e la donna che ama non ricambiato c’è una delle chiavi del racconto. Una chiave morale (che ricorda, ma invertita, quella usata da Mohsin Hamid ne “Il fondamentalista riluttante”) ma soprattutto narrativa: perché nella buona narrativa i cambi di direzione della trama sono il messaggio. Tutto culmina in un finale sorprendente (anche se ben preparato) e che rende ancora più forte l’impatto di “Chiamo i miei fratelli” sui lettori.