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‘La fabbrica’, opera prima della giovane scrittrice giapponese Hiroko Oyamada (2021, Neri Pozza), ha ottenuto in tutto il mondo e anche in Italia un grande successo di critica. Probabilmente questo è molto dovuto al tema affrontato: il lavoro e la sua dimensione precaria. Non sono infatti molti i romanzi capaci di affrontare la realtà materiale dei lavoratori e delle lavoratrici di oggi e, dello stesso livello, mi viene in mente solo l’ormai datato (ma non invecchiato) ‘Microservi’ di Douglas Coupland. Ma soprattutto ‘La fabbrica’ è narrativa al puro stato di solidità.
La trama, in breve: la giovane Yoshiko, il ricercatore esperto di muschi Yoshio e l’informatico Ushyama sono tutti e tre assunti nella Fabbrica. Per qualcuno un sogno, per altri un incubo, per altri ancora un ripiego. Una sarà destinata all’ufficio distruzione documenti, l’altro a un progetto per la realizzazione di tetti verdi, l’ultimo alla correzione di bozze. La Fabbrica è immensa, un mondo a sé, ma non si capisce che cosa produca e venda, né chi la diriga. La Fabbrica è un ecosistema dove vivono strani animali come i cormorani neri e le lucertole delle lavatrici, e gli interrogativi superano di gran lunga le risposte.
I tre personaggi scrivono tutti in prima persona, sono tre, come i buoni motivi per leggere ‘La fabbrica’:
1Molti hanno parlato, a proposito de ‘La Fabbrica’, di Franz Kafka. Sicuramente le atmosfere surreali, sospese e inquietanti fanno pensare a ‘Il processo’. Ma Hiroko Oyamada ha una cifra molto particolare. Non inventa nulla ma allo stesso tempo si ha sempre la sensazione di leggere qualcosa di nuovo, mai letto, inaspettato. Se siamo davvero passati dalla società disciplinare di Kaka a quella della sorveglianza, dove il potere è invisibile e indifferente e proprio per questo inscalfibile, questo romanzo riesce a dare una forma narrativa al concetto. Ci fa toccare la realtà, conquistandoci alla trama.
2È facile riconoscersi nei tre personaggi: lavoratori a tempo determinato, precari, demansionati, per cui un lavoro senza significato è comunque meglio del non lavoro. Ad un certo punto sembra quasi che la società fuori dalla fabbrica sia una massa di inoccupati a cui i protagonisti riescono a sfuggire, passando però da un’alienazione a un’altra solo meno annichilente. C’è una cosa che colpisce ne ‘La fabbrica’: la totale assenza della tecnologia. La Fabbrica è un mondo analogico: non ci sono telefonini, i computer scarseggiano, e l’unica eccellenza dello stabilimento sono solo i suoi ristoranti. La Fabbrica è un enigma, un segreto: per questo l’opera di Hiroko Oyamada è un grande racconto del mistero.
3In fondo, più che Kafka, ‘La fabbrica’ ricorda Samuel Beckett. Ma più allegro. Pur essendo un romanzo che parla di uno scacco e della perdita di senso dell’umano, sprigiona una grande vitalità, sia dalla scrittura che dalla visione dell’autrice. Una situazione assurda, se accettata, porta a quella grande catarsi che è la consapevolezza, dove si smette di attendere e si decide a quale metamorfosi affidarsi. Ognuno interpreterà a suo modo il finale e tutto il libro (e ci sono molti più indizi di quanto si pensi), ma è quando fa parlare di sé che una storia ha colto nel segno.