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Il Giorno della Memoria non è una semplice ricorrenza: la sua istituzione da parte dell’ONU nel 2005, risponde a una particolare esigenza che trova probabilmente la sua principale ragione nella sempre maggiore distanza del presente da quella che è la più grande catastrofe del ‘900 (e forse della storia umana), l’Olocausto. In gioco è la capacità della nostra società di ricordare, e quindi il rischio di dimenticare: si costruisce una strategia di difesa e di protezione di fronte al rischio di un’estinzione, una dissolvenza, una perdita.
Quello su cui sarebbe giusto riflettere è quindi perché ci sia questo rischio. Molti sostengono che in un’epoca in cui le informazioni scorrono velocissime in un flusso continuo, il presente divori completamente il passato, trasformandoci quindi in una società incapace di trattenere e tramandare il passato. La smemoratezza sarebbe quindi una condizione strutturale del modo in cui oggi conserviamo e tramandiamo le nostre esperienze. Questa condizione sarebbe peraltro resa più pericolosa a fronte della progressiva scomparsa dei testimoni oculari della Shoah.
Altri richiamano invece l’attenzione sul fatto che ogni memoria sia necessariamente selettiva: si dimentica quello che si sceglie di dimenticare, o si dimentica perché si vuole raccontare una storia diversa di quella che è sempre stata raccontata. In questo senso l’istituzionalizzazione della memoria del genocidio è la risposta inevitabile al revisionismo di chi vuole addirittura negare quella tragedia, o ridimensionarla o manipolarla per ridare cittadinanza a posizioni culturali e politiche che da quella storia sono state relegate all’inaccettabilità.
Tutte queste considerazioni riconducono al ruolo che lo studio della storia e la sua scrittura devono avere nella costruzione di valori condivisi. Un ruolo sempre più difficile da preservare quando parliamo di post verità, una formula nuova dietro quale si cela un problema antico: come si stabilisce la verità? Chi ha il diritto di dirla? La si trova nei documenti o nelle testimonianze dirette?
Sono questioni davvero cruciali, e pre questo vogliamo consigliare per questo Giorno della Momoria due libri di storia e due libri che si pongono il problema del metodo storico e della verità.
Deborah E. Lipstadt, “Il processo Eichmann” (Einaudi 2014)
Il processo più famoso del ‘900, seguito e raccontato da romanzieri come Philip Roth o studiose come Hannah Arendt, visto soprattutto dal punto di vista del popolo e dello stato israeliani, chiamati non solo a giudicare uno dei più spietati criminali nazisti, ma a interrogarsi su se stesso, sul proprio ruolo, sul concetto di vittima, sul confine tra diritto e identità storica. Un libro appassionante nel suo straordinario rigore.
Peter Longherich, “Verso la soluzione finale – La Conferenza di Wansee” (Einaudi, 2018)
Il 20 gennaio 1942 Reinhard Heydrich, capo dell’Uffico Centrale per la sicurezza del Reich, figura di primo piano nella gerarchia nazista, promuove e presiede una riunione in cui si formalizza la scelta di procedere la soluzione finale. Di quella riunione viene redatto un verbale di 15 pagine che troviamo nel libro e che lo storico analizza dopo aver illustrato le premesse della Conferenza. Un’opera che in poche pagine illustra lo spietato e preciso funzionamento della volontà nazista.
Carlo Ginzburg, “Il filo e le tracce – Vero falso finto” (Feltrinelli, 2006)
La verità è qualcosa che esiste? In 16 saggi brevi che affrontano vari episodi storici noti e meno noti, Ginzburg affronta, in grande anticipo sui tempi, la questione della falsificazione dei discorsi e la costruzione delle strategie di potere attraverso la parola e la scrittura. In particolare in “Rapprsentare il nemico” ci viene raccontata la storia della fake news più influente e nefasta della storia, la scrittura dei “Protocolli dei savi di Sion”: un falso usato per giustificare l’antisemitismo che viene purtroppo citato ancora oggi, anche da chi crede in QAnon.
Frida Bertolini, “Gli inganni della memoria – Testimonianza, falsificazioni, negazioni” (Mimesis, 2016)
Una monografia che approfondisce le tematiche affrontate da Ginzburg, concentrandosi sulla credibilità del racconto dei testimoni. Quanto, le bugie o i falsi ricordi di un testimone giustificano il revisionismo o addirittura il negazionismo? Quale è la responsabilità dello storico di fronte ai racconti falsi di fatti veri? In un libro che parte da fatti di cronaca molto dibattutti sulla memoria dell’olocausto, Frida Bartolini affronta la storia come un detective un caso: affidandosi non alle teorie ma alle prove.