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La boxe è uno degli sport che più hanno ispirato e ispirano l’immaginario di scrittori e registi cinematografici. Le ragioni vanno probabilmente ricercate sia nel pathos che circonda lo sport da combattimento per eccellenza, dove l’istinto della specie umana all’aggressività viene racchiuso in una dimensione spettacolare ed agonistica, sia nel fatto che in questo sport il tempo è scandito da sequenze di tempo delimitate – i round – che chi narra una storia può dilatare ed espandere entrando nelle teste degli atleti senza mai perdere l’ancoraggio di ciò che succede. E ciò che succede sono due corpi che si sfidano nel modo più brutale e senza compromessi, colpendo e venendo colpiti.
Per decenni questo agone è stato esclusivamente maschile e solo in tempi recenti la boxe femminile ha acquisito dignità e attenzione, come dimostra il grande successo del film di Clint Eastwodd “Million Dollar Baby“, che nel 2005 si è aggiudicato 4 Oscar, tra cui quello per il miglior film e la miglior regia e quello per la migliore attrice protagonista ad Hilary Swank.
Nonostante questo e il fatto che tra le migliori cantrici di quella che veniva definita la nobile arte ci siano delle autrici come Joyce Carol Oates e Katherine Dunn (i cui lavori sono stati pubblicati in Italia da 66thand2nd), la boxe femminile è ancora considerata una stravaganza da osservare in modo un po’ morboso o da trasformare in un campo di battaglia culturale come avvenuto alle ultime Olimpiadi di Parigi con il caso della pugilessa algerina Imane Khelif.
Ma il primo romanzo di Rita Bullwinkel “La vita in pugno” (Bollati Boringhieri 2024, nell’intensa traduzione di Sara Reggiani) irrompe nello scenario della narrativa con una storia di boxe femminile che non solo ridisegna definitivamente il modo di raccontare questo sport ma apre nuove prospettive per il racconto realistico.
In poche pagine vengono condensati gli otto incontri ad eliminazione diretta che in due giorni decidono a Reno, in Nevada, chi si aggiudicherà La “Coppa di Figlie d’America”. I match sono raccontati dal punto di vista prettamente agonistico e usati sia per descrivere i pensieri e le emozioni delle otto atlete e proiettare le loro vite future, quando avranno smesso di boxare. Un libro dal ritmo ipnotico, che rompe molti schemi e che consigliamo di leggere per tre buoni motivi.
1. Otto donne oltre il ring
Due sono cugine. Una indossa un cappello con la coda di procione. Una ha visto un bambino morire in una piscina. Una diventerà una wedding planner, un’altra un’attrice che troverà la sua parte migliore solo a fine carriera. Le donne raccontate in “La vita in pugno” combattono dentro e fuori dal ring soprattutto per questo: per afferrare la propria esistenza ed essere padrone del proprio destino e delle proprie scelte. L’autrice evita di rappresentare storie al limite e le sue otto protagoniste sono persone comuni, che però hanno combattuto contro altri esseri umani. Nessuna di loro farà una vita da pugile ma saranno per sempre trasformate da un’esperienza che le ha portare, con l’allenamento, a una consapevolezza di sé a cui potranno fare sempre ricorso.
2. Corpi liberati dalla boxe, e con la boxe
Il torneo “Figlie d’America” si svolge in un palazzetto dello sport scalcinato, di fronte a un pubblico quasi esclusivamente composto dalle famiglie delle atlete e dai loro risicati staff. Ma per le otto pugili vincere la Coppa è la cosa più importante della loro vita in quel preciso momento. Quando salgono sul ring conta solo l’avversaria che hanno davanti e la volontà di sconfiggerla. In quella dimensione i loro corpi si liberano e lo sguardo maschile degli allenatori, tanto interessato quanto svogliato, è del tutto superfluo e cancellato. E quando escono dal ring le vincitrici e le sconfitte si riconoscono in una solidareità senza compromessi. Accedendo a una dimensione in genere attribuita al maschile – la lotta – le donne di “La vita in pugno” la fanno completamente loro, assumendo in modo totale il controllo sul proprio corpo, le proprie ambizioni e anche le proprie sconfitte. Così il romanzo della Bullwinkell è eversivo, perché totalmente femminile, e liberatorio, perché non c’è spazio per l’appropriazione patriarcale.
3. Una scrittura essenziale ed empatica
Rita Bullwinkel scrive in modo cristallino. Nulla è lasciato al caso nella sua essenzialità: non c’è spazio per i fronzoli o il lirismo ma solo per l’esperienza vissuta. Questo stile porta a un risultato prezioso: capiamo tutto delle storie delle protagoniste e delle loro trasformazioni in uno spazio estremamente breve e concentrato. Mostrandole nel presente degli incontri e nel futuro delle loro vite, Rita Bullwinkel fa una cosa straordinaria e difficilissime: ce le rende familiari, costringendoci a non dare per scontata nessuna delle storie umane che incrociamo tutti i giorni. “La vita in pugno”, rappresentando lo sport nella sua dimensione tragica, è quindi allo stesso tempo scioccante e catartico, come sa essere la grande letteratura.