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Yū Miri è una scrittrice nata in Giappone e di origini sudcoreane. Molti dei suoi libri sono stati tradotti in Italia, da diverse case editrici, senza mai ottenere il riscontro di pubblico che meriterebbe e nonostante si sia aggiudicata con “Stazione Ueno” (21lettere, 2021) il National Book Award per il miglio romanzo in lingua straniera.
“Il paese dei suicidi”, scritto nel 2012, è stato pubblicato nel 2020 (traduzione e postfazione di Anna Solimando) da Atmosphere libri, casa editrice specializzata in letteratura asiatica e il cui catalogo è pieno di gemme dal valore inestimabile. Come questo romanzo, di un’autrice che sa dare valore universale a una vita di spaesamento, bullismo e pressione sociale.
La trama de “Il paese dei suicidi”, in breve
Mone è all’inizio della scuola superiore. Ma non ha superato gli esami per iscriversi alla scuola che le avrebbe dato l’opportunità di un futuro diverso dal fare la cameriera, il suo lavoretto. Fa gruppo fisso con delle sue compagne di cui però è succube senza essere amica. La sua famiglia si è trasferita dal Kansai a Tokyo e ogni cosa bella di Mone è nel passato, non nel presente e non nel futuro. Adorava suo padre, ma adesso lui ha un’amante e la madre lo lascerà portando con sé solo il figlio più piccolo. Così Mone pensa di non avere altra scelta che entrare a far parte del “Gruppo della fine”, una chat in cui si formano piccole compagnie per suicidarsi insieme. Con tre compagni organizza così il suo ultimo viaggio, verso una fine che sembra l’unico nuovo inizio possibile.
“Il paese dei suicidi” parla dei suicidi nella società giapponese, questione che abbiamo affrontato anche nel nostro “Giappone in tutti i sensi”, ma in realtà parla di una condizione esistenziale più comune di quello che vogliamo pensare. Per questo e per altri tre buoni motivi è una lettura importante.
1. La realtà di un viaggio interiore
“Il paese dei suicidi” racconta, in fondo, una storia vera. Non solo perché in Giappone sono davvero frequenti i suicidi di gruppo e non solo perché Yū Miri ha tentato il suicidio ed è stata discriminata per le sue origini coreane, ma perché tutto, nella scrittura di quest’autrice, fa risaltare la realtà delle vicende dei suoi personaggi.
Spesso la protagonista Mone è in treno e in metropolitana, luoghi dove i giapponesi passano molto del loro tempo, recuperando il sonno e circondati da una folla di solitudini. I rumori ferroviari sono il contrappunto dei pensieri di Mone e ne scandiscono i tanti viaggi che compie. Quelli verso casa, quelli della memoria, quello verso la fine. Ma sui treni Mone osserva anche gli altri passeggeri e immagina le loro possibilità che, in fondo, sono anche le sue.
2. Quei giovani che non vediamo
Mone è una ragazza giapponese, ma potrebbe essere anche italiana o americana. Non solo perché comunica quasi esclusivamente con il suo smartphone, ma perché il senso di inadeguatezza che la pervade è quello che spinge molti giovani a ritirarsi dalla società. Un ritiro che non è una fuga ma il modo per esprimere il rifiuto di aspettative troppo elevate e soprattutto completamente sganciate dai desideri reali dei ragazzi.
Questo è un romanzo che piacerà agli adolescenti, perché parla la loro lingua e descrive il loro mondo, ma che dovrebbe essere letto dai genitori per capire i propri figli quando si ritirano in un silenzio dove rimbombano grida silenziose, che chiedono solo di essere ascoltate.
3. La luce irriducibile dell’empatia
Nonostante affronti le questioni della solitudine, del disagio, dello spaesamento e della crisi di identità, “Il paese dei suicidi” è attraversato da veri e propri lampi di luminosa empatia.
Mone si ritrae dal mondo, ma sa ascoltare chi lo abita, e Yū Miri ha una capacità straordinaria, e rara, di entrare in sintonia con i suoi personaggi. Di rispettarli e di dare sempre loro una possibilità. Così questo romanzo è un antidoto alla cattiveria e alla violenza e tiene sempre accesa la fiammella di un cambiamento possibile. Un libro duro ma allo stesso tempo vitale.
C’è vita, anche nel paese dei suicidi.