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Nel catalogo di saggistica di Minimum Fax, cresciuto in modo travolgente in questi ultimi anni per profondità delle questioni trattate e qualità degli autori e delle autrici proposte, “L’arte queer del fallimento” di Jack Halberstam (traduzione efficacissima di Goffredo Polizzi) è un’incursione anarchica e perturbante così ricca da sfuggire a qualsiasi riduzione accademica. Del resto questa è una delle intenzioni dichiarate dell’autrice: uscire dal mainstream e dalle codificazioni eteronormative in modo radicale, aderendo alla pratica gramsciana della teoria bassa.
Ma l’obiettivo principale è quello di difendere il fallimento come alternativa a un modello sociale dominante, che ha nella competizione e nel culto del successo il suo fondamento e il suo scopo. Contrapponendosi a un filosofo assai modaiolo come Zizek, Halberstam dice: “Anche Zizek ha affrontato il tema del fallimento in un libro oppportunamente intitolato ‘In difesa delle cause perse’, ma piuttosto che analizzare il fallimento in sè come una categoria che i vincitori fanno valere contro i perdenti, e come una serie di standard che fanno sì che le tutte le iniziatve radicali, comprese quelle future, vengano giudicate inefficienti dal punto di vista dei costi (come ho cercato di fare io in questo libro), Zizek vede nel fallimento una sosta temporanea nella strada verso il successo. Anche qui, come in altri suoi libri, mette alla berlina il postmoderno, il queer, il femminismo, ignora del tutto gli studi critici sull’etnia […] Zizek non difende le cause perse – cerca solo di resuscitare un modello di insurrezione politica che dipende dalla saggezza, dal virtuosismo intellettuale e dall’intuizione radicale di, bè, persone come lui”. Cosa ha fatto Zizek per far arrabbiare così tanto Halberstam? Ha parlato male di “Kung Fu Panda”.
Perchè il cuore di questo lavoro sono i cartoon, in particolare i film di animazione in stop motion e CGI (Computer-generated imagery). “Galline in fuga”, “Alla ricerca di Nemo”, “Monsters & Co.”, “Shrek”, “Babe maialino coraggioso” sono viste come storie che aprono lo spazio a una politica alternativa; storie di diversità e perversità che fanno convergere personale e politico nel riscatto del fallimento e nella dimensione della cooperazione tra diversi e perversi. Immaginario liberato, insomma.
Halberstam analizza il materiale della cultura popolare e di artisti (soprattutto pittori e fotografi) per ricavare narrazioni non solo alternative ma sfuggenti. Perché il fallimento di cui parla il libro è una dimensione altra rispetto a quella del capitalismo performativo e del selff qualified, dove l’individuo può sempre migliorarsi da solo, avere successo a scapito degli altri e, in caso di fallimento, essere vittima della vergogna e del senso di colpa. In questo senso la lettura di “Galline in fuga” e di una collezione di fotografie di atleti arrivati quarti alle Olimpiadi rappresentano i passaggi più efficaci e diretti di un saggio tanto avvolgente quanto gioiosamente spiazzante e a tratti divertente.
Infatti Halberstam di una pensatrice originalissima, colta e a suo agio nella cultura di massa (una capacità rara che deve molto a Walter Benjamin), capace di attraversare le questioni e gli spunti in modo nomadico ma sempre mantenendo una traiettoria ben precisa e stimolante: dopo aver letto “L’arte queer del fallimento” viene voglia di rileggere in modo completamente diverso molte opere visive e letterarie utilizzando le chiavi interpretative perturbanti dell’autrice (ad esempio “Game of Thrones” si presta moltissimo a questo tipo di operazione). Inoltre Halberstam non si ritrae nemmeno davanti alle vicende più scomode, come il rapporto tra omosessualità e nazismo (per dimostrare che l’equazione diritti di genere/sinistra è inesatta) e il rischio di omologazione di tutte le liminalità – oltre al genere, la razza, la religione, le classi sociali e le specie – a un unico modello di adattamento al contesto neoliberale.
Il fallimento queer è proprio la ricusazione di questo rischio: un’utopia letterale, ovvero un luogo che non c’è ma che siamo in grado di pensare. Esattamente come i cartoni che guardano i bambini: “Il bello di questi film è che non temono il fallimento, non apprezzano il successo, e rappresentano bambini e bambine non come pre-adulti in cerca del significato del futuro, ma come esseri anarchici che prendono parte a logiche strane e incongruenti. […] Renton, Johnny Rotten, la Gallina Gaia, Dory e Babe, come si atleti che si piazzano al quarto posto, ci ricordano che c’è qualcosa di potente nello sbagliare, nel perdere e nel fallire, e che tutti i nostri fallimento messi insieme potrebbero bastare, se li pratichiamo bene, a spodestare i vincitori”.
Dopo aver letto “L’arte queer del fallimento” non guarderete più nessun cartone allo stesso modo e forse penserete, almeno un po’, in modo differente. È il pregio della migliore teoria: disseminare di dubbi e transizioni e vedere dove vanno a parare, lontano dai riflettori del mainstrem.