Tempo di lettura: 2 minuti
Pinocchio di Guillermo del Toro è poetico? Indubbiamente: la vicenda e i suoi protagonisti suscitano emozioni forti e la vicenda è commovente e delicata. È un’opera impegnata, che fa riflettere e comunica un messaggio civile? Sicuramente sì. La scelta di ambientare Pinocchio ai tempi del fascismo, durante la seconda guerra mondiale, produce una reinterpretazione del testo collodiano molto forte e, finalmente, originale. È un prodigio tecnico – stilistico? Innegabilmente: da molto tempo un’opera di animazione non coniugava fascino visivo, narrazione, fluidità e regia in modo così equilibrato e allo stesso tempo sorprendente.
È perturbante? Molto: ed è la qualità migliore di questo film così bizzarro, così irriverente senza cadere nella retorica e nei cliché.
Ecco alcune cose che rendono il Pinocchio di Guillermo del Toro talora grottesco, talora inquietante. Innanzitutto, Pinocchio non è frutto di un atto d’amore o di un gesto prometeico, ma della rabbia disperata di un Geppetto disfatto dall’alcolismo di cui è caduto vittima dopo la morte del figlio Carlo. Un Geppetto che non rispetta gli impegni lavorativi (ha lasciato incompiuto nientemeno che il crocifisso della chiesa del paese) e che assomiglia molto al suo autore, Carlo Lorenzini detto Collodi, che della scapigliatura non accolse solo le tematiche letterarie ma anche lo stile di vita tormentato. Tracce di figure materne: zero.
Il burattino, alquanto sgangherato e per nulla armonico, non è certo accolto come un miracolo, ed è anzi visto come un monstrum ed un pericolo: dal parroco (che sembra uscito da una tavola lombrosiana) e dal podestà, che vuole ricondurlo immediatamente alla norma littoria. Spazzatura, la scimmia dell’imprenditore circense Conte Volpe, è reietta e non sfigurerebbe in un’opera di Brecht. La fata Turchina è sostituita da uno spirito elementale, un po’ sfinge e un po’ arpia, sorella di una creatura che sovrintende un mondo degli inferi che sembra uscito dai quadri di De Chirico e Dalì.
In sintesi: Pinocchio di Guillermo del Toro è un film queer, nel senso che gli attribuisce Jack Halberstam nel libro “L’arte queer del fallimento” (Minimum Fax), già recensito da noi recensito. Uno studio che si basa proprio sul potenziale delle forme di animazione in digitale o in stop-motion che “hanno aperto nuove strade alla narrazione hanno portato a incontri inaspettati fra l’infantile, il trasformativo e il queer”.
Citando poi uno studio di Esther Leslie sull’interpretazione dei cartoni animati di Walter Benjamin, possiamo scoprire che i cartoni animati “ci fanno capire che neanche i nostri corpi ci appartengono – ne siamo stati alienati in cambio di soldi, li abbiamo in parte ceduti per la guerra. I cartoni rivelano il fatto che ciò che si fregia di essere civiltà è in realtà barbarie. Le bestie, umane e animali insieme, gli oggetti viventi che li popolano, ci fanno intendere che la centralità dell’umano non è nient’altro che un’ideologia”.
I film di animazione hanno quindi un potere, perché danno messaggi come “lavora con gli altri, celebra la differenza, combatti lo sfruttamento, impara a decifrare l’ideologia, partecipa alla resistenza”: una frase che sintetizza questo Pinocchio in cui tutto è strano e in cui sia lo sguardo di un bambino che quello di un adulto possono viaggiare e trasformarsi attraverso la meraviglia di un film che durerà nel tempo.