Tempo di lettura: 2 minuti
Suketu Mehta, pubblicato in Italia da Einaudi, arrivò in finale al premio Pulitzer con l’imponente “Maximum City. Bombay città degli eccessi”, un lungo, dettagliato e splendido reportage sulla sua città natale. Uno straordinario atto d’amore per la dimensione contradditoria di una megalopoli della globalizzazione. Con il successivo “La vita segreta delle città”, Mehta proponeva un’analisi acuta della dimensione migratoria contemporanea. Un percorso che trova conferma e culmine in “Questa terra è la nostra terra – Manifesto di un migrante”, dove la questione dei popoli che si muovono si presenta come quella centrale della nostra epoca.
Il libro, in breve
Mehta, nato in India, cresciuto a New York ed ora autentico esempio di quella che potremmo chiamare appartenenza multipla, prende di petto tutti gli stereotipi e le nevralgie del dibattito sulle migrazioni e le rende vive attraverso le storie dei migranti e dei paesi che li accolgono o, sempre più spesso, li respingono.
I titoli delle quattro parti del saggio dicono quasi tutto: Arrivano i migranti – Perchè arrivano – Perchè fanno paura – Perchè dovrebbero essere i benvenuti. Mehta ha lo stile coinvolgente del grande giornalista e la capacità di approfondimento di uno studioso, ma il suo è un libro di persone, di esperienze vissute e, soprattutto, da vivere. Si piange, si ride e ci si appassiona, con le tante persone che conoscerete leggendo.
Tre buoni motivi per leggere il libro
Ci sono almeno tre buoni motivi per leggere questo Manifesto di un migrante, subito:
1È un Manifesto, quindi è un libro militante. Un libro che sostiene una posizione. Ma non è un libro che può essere tacciato di buonismo. Perchè Mehta non nasconde i conflitti generati dalle migrazioni, ma si schiera: dalla parte di chi si muove e contro chi pensa di impedire alle persone di muoversi per cercare di migliorare la propria vita, soprattutto quando chi vuole impedirlo ha la responsabilità storica e attuale della colonizzazione, delle guerre, dello sfruttamento, del cambiamento climatico. Soprattutto perché impedirlo è impossibile.
2Mehta racconta tante storie dolorose, di quelli e quelle che chiama gli eroi di tutti i giorni. Ma racconta fatti di successo, che ci dicono come la cittadinanza sia molto più importante della nazionalità, della razza, dell’etnia. Mehta dice con chiarezza che l’aspirazione di un migrante non è assimilarsi, ma poter scegliere cosa fare della propria vita. Come possiamo fare noi… bianchi. Destinati ad essere una minoranza nel mondo, perchè chi emigra è giovane. Le storie di “Questa terra è la nostra terra” sono storie del futuro.
3Alla fine della lettura, Mehta ottiene quello che credo sia il suo obiettivo principale: metterci in discussione. La definizione dell’altro comporta sempre una definizione di noi stessi, ma senza l’altro noi non riusciremmo a definirci. L’autore ci dimostra che l’identità è sempre costruita, negoziabile e, soprattutto, mutevole. E’ una trama. Per questo la prosa di Mehta è senza confini di genere e si dimostra, insieme al romanziere Mohsin Hamid, uno dei migliori cantori del nostro tempo. Uno indiano e uno pakistano, entrambi americani, ma cosa importa: la loro terra è la nostra terra.