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“V’era un lungo capello nero su uno dei cuscini. V’era un grumo di piombo nel mi stomaco. I francesi hanno un modo di dire per situazioni del genere. Quei bastardi hanno un modo di dire per tutto, ed è sempre giusto. Dirsi addio è un po’ come morire”. Così pensava Philip Marlowe ne “Il lungo addio”, romanzo del 1953 che Adelphi ripropone in libreria (nella traduzione di Gianni Pannofino e con una bellissima copertina) nell’ambito di una ristampa delle opere di Raymond Chandler, forse lo scrittore più amato e frainteso della letteratura poliziesca americana.
Amato a ragione, perché i suoi romanzi, insieme a quelli di Dashiell Hammett, portarono il giallo nel XX Secolo, abbandonando le ormai asfittiche logiche alla Cluedo di Sir Arthur Conand Doyle, Agatha Christie e S. S. Vandine. Basta con gli enigmi della camera chiusa, con i fogli di carta bruciacchiati, le lenti di ingrandimento e le cellule grigie: il poliziesco era roba da piombo e sangue, per “uomini duri”. Per detective che sul grande schermo avrebbero avuto il volto di Humphrey Bogart o di Robert Mitchum. Frainteso perché nel suo ambizioso progetto di portare il giallo nella grande letteratura realistica, Chandler rimase sempre a metà del guado e “Il lungo addio”, forse il più grande successo, ne è la lampante dimostrazione.
“Il lungo addio” è un concentrato di tutto ciò che era Raymond Chandler. È un romanzo sull’amicizia tradita, su uno scrittore alcoolizzato, sul lato oscuro della California. Un romanzo dove Philip Marlowe si sublima nell’immagine dell’antieroe che conquistava i cuori dei personaggi femminili dei suoi romanzi e l’immaginario dei lettori, affascinati da questa figura capace di portare il romanticismo dentro un trench, una fondina, una sigaretta e uno sguardo dolente. Per questo è diventato un classico ed è un libro effettivamente notevole. Ma per apprezzarlo bisogna deporre la propria ragione e affidarsi al ritmo della narrazione senza porsi troppi problemi sulla coerenza e l’intelligibilità della trama.
“Il lungo addio” è un romanzo stravagante e, per molti aspetti, sconclusionato. L’intreccio è talmente incoerente che i colpi di scena e le soluzioni dei diversi delitti che il detective è chiamato a rivelare talmente acrobatiche, che si possono accettare solo a patto di non farsi molte domande. Non è un caso che a portare al cinema il libro fu un regista anomalo come Robert Altman, che scelse per la parte di Marlowe un improbabile ma azzeccatissimo e bravissimo Elliot Gould.
Il fatto che Adelphi, casa editrice “colta” – che già ripropone da anni la vastissima produzione giallistica e non di George Simenon – abbia scelto di riproporre Chandler, ci dice che l’autore è stato sicuramente capace di portare il giallo e sé stesso nel salotto buonissimo della letteratura mainstream, ma leggere oggi “Il lungo addio” vale la pena soprattutto se lo si legge come un grande romanzo sulla West Coast e quel mondo dalle mille contraddizioni che è Hollywood; come un grande romanzo sul ruolo dello scrittore nell’industria culturale di massa.
“Il lungo addio” è un romanzo struggente, senza il quale gente come Ellroy o Winslow non ci sarebbe mai stata, e anche i suoi difetti fanno parte del suo fascino. Del resto è quello che i lettori fanno spesso: sottoscrivere un patto con il diavolo della letteratura, dove l’importante è che funzioni.